L’ intervista a Silvio Viale, colui che ha introdotto l’aborto farmacologico in Italia e fra i medici che oggi praticano più IVG

di Maria Teresa Trivisano

In molti avranno visto le immagini di quei piccoli feti di gomma diffusi al Congresso Mondiale delle Famiglie 2019, svoltosi dal 29 al 31 marzo. Sono rimbalzate su tutti i giornali, diventando il simbolo di una lotta Pro Vita contro l’aborto. In Italia, la Legge 194 ha segnato uno dei momenti più significativi per la storia delle famiglie italiane. Nata nel 1978, pose fine alla piaga degli aborti clandestini, disciplinando i metodi dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), possibile soltanto presso le strutture pubbliche. Ma è nel 2009 che avviene un altro cambiamento importante: in Italia viene consentita la commercializzazione della RU486, concedendo alle donne la possibilità di scegliere fra aborto chirurgico e farmacologico.

A scoprire il farmaco fu un ricercatore francese negli anni ’80: si tratta del mifepristone e consente di interrompere la gravidanza nei primissimi stadi, abbinato al misoprostolo. In Italia l’aborto medico è consentito entro 49 giorni (7 settimane) dall’inizio dell’ultimo flusso mestruale, mentre nel resto d’Europa si utilizza fino al 63° giorno. Il mifepristone agisce neutralizzando il progesterone e quindi preparando il terreno all’azione del secondo farmaco: la prostaglandina che provoca il distacco dell’embrione dall’utero. L’assunzione del misoprostolo determina contrazioni uterine che provocano l’espulsione dell’embrione entro poche ore. Il Ministero della Salute ha imposto che durante tutto il trattamento la donna sia ricoverata in ospedale, mentre all’estero il tutto può avvenire a casa, seguite dalle indicazioni di un medico.

Il dott. Silvio Viale è uno dei volti simbolo di questa evoluzione.Specialista in ostetricia e ginecologia, lavora all’Ospedale Sant’Anna di Torino, una struttura che nell’ultimo anno ha eseguito oltre settemila nascite e tremila aborti. Noto anche per il suo impegno politico e civile al fianco dei Radicali Italiani si è battuto strenuamente per introdurre l’aborto medico in Italia. Fortemente contestato dai gruppi antiabortisti, a oggi è fra i medici che conduce più aborti in Italia.

Dott. Viale, la tematica dell’aborto resta ancora un fronte caldo, soprattutto alla luce di Verona. Come stanno realmente le cose in Italia, è così difficile praticarlo?

«No. A Torino la legge non è diversa dalle altre regioni. Noi facciamo oltre 3.000 aborti all’anno, la metà sono con la RU486. Se alcune donne preferiscono recarsi altrove, in Francia, in Svizzera o in Slovenia, è perché non vogliono far sapere a nessuno del loro aborto».

Per quanto riguarda la RU486, col tempo sono nati dei siti web che consentono di acquistarla online, tramite dei “kit per l’aborto” che arrivano direttamente a casa. Perché lo sviluppo di questo mercato se è davvero così semplice abortire in ospedale? 

«Mi sono sempre chiesto chi siano le donne che acquistano questi kit e perché lo facciano. Sono convinto che nove su dieci agiscano così per ignoranza e cattiva informazione. Basta fare una ricerca online sull’aborto medico e compaiono tutte le strutture ospedaliere che lo praticano. Se si cerca “RU486” come minimo si arriva al mio nome e infatti, in tante mi chiamano. Ormai l’aborto medico si fa in tutte le regioni, al Sud un po’ meno, ma basta informarsi e la singola persona spesso non la fa, perché tendenzialmente ogni donna pensa che l’aborto possa capitare solo alle ragazze poco attente, più sprovvedute e se poi coinvolge loro nessuno deve saperlo».

Quindi l’online diventa un modo per agire in anonimato 

«A volte, prima che una donna abortisca, almeno venti persone sanno già della sua gravidanza. Venti persone che a Milano possono essere tutte sconosciute, ma in un paese più piccolo no. Perciò per una questione di privacy molte preferiscono andar via. In più c’è da dire che per quanto riguarda i kit online, la Women on Web (una delle più grandi organizzazioni digitali che spedisce kit per aborti in tutto il mondo, Ndr) non li spedisce nei paesi in cui l’aborto è legale. È un fenomeno che mi ricorda un po’ il mito del viagra dove c’era la fregatura. Se poi consideriamo che anche il Cytotec si trova facilmente, non vedo la necessità di ricorrere al web».  

Il Cytotec però si vende per trattare l’ulcera, non è un un po’ rischioso comprarlo per abortire?

«No, in tutto il mondo si fa così, lo riconosce anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità. È un po’ come l’aspirina che si può usare per le cardiopatie, dolori, infiammazione, dipende dalla dose e da come la assumi. Il Cytotec è un farmaco da sempre usato per la prevenzione delle ulcere, ma in tutto il mondo è utilizzato anche per l’aborto, perché costa poco, è termostabile e lo puoi portare in giro. L’OMS lo considera anche per risolvere il problema delle morti di emorragia post partum. È proprio una questione di ignoranza. Quando si dice che in Italia non si può abortire, si parte già col piede sbagliato. Noi facciamo aborti in metà del Piemonte, l’ospedale che ne fa di più subito dopo di noi è sui 200, quindi una media di  3-4 aborti a settimana». 

Mentre negli altri Paesi l’aborto farmacologico si può svolgere in casa, in Italia questo non è consentito. Qual è la prassi da seguire per procedere?

«La legge 194 prevede che l’aborto si faccia in ospedale. Io ho ancora il ricovero di tre giorni prescritto dalla regione Piemonte che violo da 5 – 6  anni facendo il day hospital. I farmaci li do in ospedale. Il primo giorno si procede con la RU486, poi la signora va a casa e ritorna dopo due giorni: alle sette di mattina diamo il misoprostolo e solo per gli aborti interni, ossia quei casi in cui la gravidanza si è interrotta, ma non si espelle, diamo il Cervidil. In questo modo nove donne su dieci abortiscono e lo vediamo dall’ecografia, escono e ritornano per un controllo dopo un mese. Una donna su dieci assume una seconda dose, perché cerchiamo di far abortire tutte in ospedale. Ma c’è anche chi abortisce a casa e torna regolarmente a fare i controlli. Non è drammatico, in tutto il mondo si fa così». 

Stando alle sue affermazioni, potremmo dedurre che gli unici pericoli dell’acquisto online siano il rischio di contraffazione e le conseguenze del fai-da-te, senza le dovute indicazioni di un medico

«Esatto, il kit in sé non è pericoloso perché è così che funziona ovunque. Il consulto di un medico è fondamentale: se questo non c’è, il pericolo vero si presenta nel momento in cui si hanno le perdite che possono durare a lungo. In questo caso la donna si spaventa e viene in ospedale, ma se fa credere di aver avuto un aborto spontaneo, nessuno medico potrà capire che in realtà ha assunto il kit. Tuttavia sono pur sempre casi sporadici. Nessuna associazione femminile in Italia si occupa di questo, mentre all’estero l’aborto è una delle prime occupazioni di tutti i gruppi femministi, in Italia è l’ultimo problema. Sono troppo occupati a prendersela con gli obiettori: un falso problema che serve solo a distrarre l’attenzione da difficoltà ben più gravi». 

Secondo gli ultimi dati estratti dalla relazione del Ministero della Salute, in Italia circa il 70% dei ginecologi è obiettore. Perché parla di un falso problema?

«Perché non è vero. In Italia siamo 1.600 non obiettori, molti di più di quelli che fanno gli aborti in Inghilterra. Bisogna creare servizi e c’è un problema originario con la 194 per cui l’aborto è l’unica prestazione sanitaria che si fa solo in ospedale, mentre tutte le altre si fanno anche privatamente. Prendiamo la Legge 40 sulla fecondazione assistita: non c’è obbligo di farla nel pubblico in ospedale e non c’è nessuna polemica sull’obiezione di coscienza. A fare la fecondazione assistita saranno non più di 400 ginecologici, ci sono problemi di altro tipo, ma non c’è obiezione di coscienza. All’estero ci sono leggi più restrittive rispetto all’Italia. In Inghilterra se una donna decide di abortire, solo due medici possono certificare che potrà farlo a causa di problemi sociali, economici, psicologici o di altro tipo. Quello degli obiettori è un falso problema, sono quasi tutti favorevoli alla legge 194, il vero problema è il ghetto in cui sono finiti gli aborti. Non ci sono servizi, ti becchi delle grane e per non correre rischi uno li evita. Su ottanta colleghi del Sant’Anna, in trenta siamo non obiettori e cinquanta sono obiettori, di quest’ultimi una decina sono obiettori veri per qualche motivo serio, poi tutti hanno delle eccezioni, come chi è contro l’aborto al secondo trimestre. In tutto il mondo chi non vuole fare aborti non li fa, non c’è l’obbligo di farli. L’obiezione di coscienza è qualcosa di garantito che vale anche per il servizio militare, la sperimentazione animale, la legge 40».

Il suo nome è legato a una lunga battaglia per legalizzare la RU486 e per dare alle donne la possibilità di scegliere tra aborto chirurgico e farmacologico. Una lotta vinta nel 2009: cosa è cambiato da allora?

«A oggi il metodo chirurgico resta il più diffuso, ma l’importante è che ci siano entrambi. Piemonte  e Liguria hanno il 40% di aborti eseguiti con la RU486, Emilia Romagna il 30%, persino il Lazio è arrivato al 18%. Nelle regioni meridionali le percentuali scendono, in alcune sono a livelli quasi simbolici, ma la colpa in quei casi è del sistema sanitario regionale. Ogni regione dovrebbe avere un piano sulla 194 esattamente come quello che c’è per le tonsille o le emorroidi. Ci sono strutture che le fanno, altre no, altre che fanno solo quelli».

Che idea si è fatto sul Congresso di Verona?

«Non c’è un problema sull’ aborto, ma su una parte della società che vuole tornare indietro al modello della famiglia tradizionale nel modo più becero del termine. Gente che è contro il divorzio, l’aborto, la fecondazione, i gay, contro tutti in un ritorno al medioevo. Mi fa ridere la presenza di Salvini che è divorziato o di Zaia che che non ha figli e partecipa a una manifestazione che invita a procreare».

Invece di partecipare al Congresso cosa dovrebbero fare questi politici?

«In Italia nessuno si occupa realmente dell’aborto. È una battaglia forte che si deve combattere contro il menefreghismo della politica nel non voler organizzare i servizi e non voler considerare l’aborto come una delle prestazioni sanitarie che il sistema deve dare. Purtroppo la riduzione degli aborti depotenzia questo discorso. Essendo diminuiti, i ministri sostengono che i ginecologi sono sufficienti. Bisogna responsabilizzare ogni regione e azienda sanitaria a garantire il servizio nel migliore dei modi».

Lei teme il sopravvento di queste correnti Pro Vita?

«No, le temerò nel momento in cui potranno trasformarsi in leggi, ma è molto difficile. Adesso non le temo anche perché quando vengono davanti all’ospedale con i feti di gomma e le mie fotografie con su scritto “boia” , contemporaneamente ci sono donne che entrano in ospedale per abortire e per me tutto finisce lì».

Sfatiamo un po’ il mito di questi piccoli feti di gomma: se si interviene con l’IVG farmacologica entro i 49 giorni di amenorrea previsti dalla legge Italiana, quanto misura effettivamente l’embrione?

«A sette settimane è di circa un centimetro e non è distinguibile dal sangue mestruale e dai coaguli. Con il metodo farmacologico l’aborto avviene come un ciclo mestruale con la differenza che le perdite sono più abbondanti».

Nel corso degli anni si è inimicato un bel po’ di gente. C’è qualcuno che definisce ancora la RU486 come “Kill Pill” e sostiene che uccide 10 volte di più dell’aborto chirurgico. Come risponde a queste affermazioni?

«Che sono tutte cretinate e mi sono indifferenti. Oggi la maggior parte delle donne chiede l’aborto farmacologico, perché non è un intervento chirurgico, è più naturale e meno invasivo. Per me la questione scientifica sulla RU è finita. Non utilizzarla è da criminali: inoltre il mifepristone è anche autorizzato per il secondo trimestre e in molti ospedali si usa ancora la prostaglandina in dosi e tempi più lunghi».

Al termine dell’intervista, dopo altre digressioni e confronti, il dott. Viale conclude così: «La maggior parte delle donne che viene da me per abortire mi spiega che è contraria all’aborto, non lo farebbero ma sono costrette, perché il loro caso è particolare e non si presenterà mai più.  Nessuno pensa mai che abortirà nella sua vita: per fortuna c’è una legge, ma sul cosa farò io o lei quando avrà un test di gravidanza in mano o una diagnosi infausta in gravidanza lo scoprirà solo in quel momento»

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